Economia

L’economia politica che muove e regola il mondo
L’economia politica, in particolare la macroeconomia internazionale, ha un enorme impatto sulle vite di tutti,
eppure è ignorata o fraintesa dalla stragrande maggioranza della popolazione.
Capire la natura dell’economia ed i suoi concetti fondamentali è un pre-requisito per essere un buon cittadino,
e fare scelte consapevoli nel mondo del lavoro, nella politica, negli acquisti di beni e servizi.
Ma molto spesso anche chi ha una o più lauree è completamente analfabeta in materia.
Le persone comuni ignorano il vero significato di concetti di base
come valore, denaro, prezzi, produttività, lavoro, organizzazione, innovazione, investimento.
E per questo, oltre alla carenza di informazioni, compiono scelte irrazionali ed errate. Imprenditori e manager non capiscono come funzionano la società, lo stato, l’economia di un paese e quella internazionale.
La maggior parte degli economisti, e degli operatori economici (imprenditori, manager, lavoratori dipendenti ed autonomi), credono con fanatismo ideologico e religioso a teorie sbagliate, lontane dalla realtà, e le fanno adottare ai politici, con risultati disastrosi.
Il punto importante è che l’Economia non è una scienza, neanche una tecnica, nel senso
delle scienze esatte (come la fisica, la chimica, la matematica, l’informatica, …),
ma piuttosto un’opinione politica, che tende a descrivere la società esistente.
In questo è molto vicina a storia, sociologia, antropologia, psicologia
anche quando vuole recidere il legame con le altre scienze sociali.
Non esistono scelte economiche giuste o sbagliate,
neanche scelte superiori alle altre, ricette universali valide per tutti,
ma solo scelte dettate dalle opinioni politiche con tanti
effetti diretti ed indiretti sia positivi che negativi, vantaggiose per
un gruppo sociale ma dannose per gli altri.
Se vengono mascherate da scelte tecniche, obbligate, dettate dalla competenza e dalla conoscenza della materia,
è una pericolosissima illusione, anzi si tratta semplicemente di una truffa.
I governi di presunti tecnici (in realtà non lo sono) spesso impongono misure
che avvantaggiano lo 0.1% della popolazione più ricca ed improduttiva,
finanziatrice delle campagne elettorali dei politici, ma impoveriscono tutti gli altri, il 99.9% dei cittadini.
La storia e l’esperienza di tanti paesi mostra che i migliori risultati
nei posti di potere e responsabilità, come la guida del governo e dell’economia,
li ottengono ingegneri, giuristi, scienziati
che hanno dimostrato di saper eccellere nello studio di qualche disciplina STEM (scienza, ingegneria,
medicina,…) o sociale (diritto, sociologia, antropologia, storia,…),
che studiano tutta la vita e sanno ragionare su problemi complessi.
Se gli economisti accademici al governo fanno danni per la crescita economica, gli imprenditori, i manager, ed in generale chi proviene dal mondo del lavoro, riescono a combinare disastri peggiori, raschiando il fondo del barile, perchè un paese non è un’azienda (Paul Krugman, premio Nobel 2008). Infatti chi è abituato al mondo locale, “facile” ed aperto delle imprese spesso non riesce a capire un sistema globale, complesso, anzi migliaia di volte più complicato, “difficile” e chiuso come l’economia di un paese. Servono competenze completamente diverse per guidare uno stato rispetto a chi avuto successo nel mondo del lavoro, la mentalità “aziendalista” è la più pericolosa nell’amministrazione dei beni pubblici.
Diceva alcuni anni fa Joan Robinson:
Per fare buon uso di una teoria economica, dobbiamo innanzitutto fare la cernita tra gli elementi propagandistici
e gli elementi scientifici; poi verificando con l’esperienza, vedere quanto appare convincente la parte scientifica,
e in definitiva combinarla con le nostre stesse idee politiche.
L’oggetto dello studio dell’economia non è di acquisire una serie di risposte preconfezionate alle questioni economiche,
ma di imparare come evitare di essere ingannati dagli economisti.
(ex docente Economia a Cambridge, trad. it da Contributions to modern economics, 1978).
Ed chiarisce Ha-Joon Chang:
La scienza economica è riuscita particolarmente bene a tenere a distanza il grande pubblico.
La gente è sempre pronta a far sentire la propria opinione su qualunque cosa, pur non avendo le competenze necessarie:
cambiamento climatico, matrimoni gay, guerra in Iraq, centrali nucleari.. Ma quando si parla di questioni economiche,
molti non mostrano di avere alcun interesse, figuriamoci un’opinione chiara in merito.
[…]
l’economia non sarà
mai una scienza alla stregua della fisica o della chimica. In questo campo
esistono infatti teorie molto differenti, ognuna delle quali sottolinea aspetti
diversi di una realtà complessa, genera giudizi di valore morale e politico
diversi e giunge a conclusioni diverse. Inoltre, le teorie economiche non
riescono mai a prevedere quello che accadrà nel mondo reale, nemmeno
nelle aree di specifica competenza, non da ultimo perché gli esseri umani
sono dotati di libero arbitrio, diversamente dalle molecole chimiche o dagli
oggetti fisici.
Se in economia non esiste un’unica risposta esatta, allora non possiamo lasciare tutto in mano agli esperti.
In altre parole, ogni cittadino responsabile deve imparare un po’ di economia, il che non significa procurarsi un librone di testo
e assimilare una prospettiva economica particolare. Ciò che serve è studiare l’economia per essere consapevoli
che esistono diversi tipi di tesi economiche e sviluppare lo spirito critico per valutare quale posizione sia più sensata
in una determinata situazione e ala luce di determinati valori morali e obiettivi politici. […]
(docente di Economia a Cambridge, Prologo. Perchè preoccuparsi? da “Economia. Istruzioni per l’uso”, 2016).
Purtroppo, a partire dalle fine dell’ottocento, la maggior parte dell’economia si è trasformata
in una pseudo-scienza cialtrona che crede religiosamente in assurdità come l’equilibrio dei mercati
e le aspettative razionali degli agenti economici, l’economia neoclassica marginalista,
le sintesi post-keynesiane, l’ordoliberismo, il neoliberismo.
Uno scienziato od un ingegnere cercano di sviluppare modelli realistici del problema che studiano,
per ricavarne previsioni esatte ed applicabili con profitto nella pratica.
All’opposto l’economista liberista, che crede nell’autoregolazione dei mercati,
sviluppa modelli matematici assurdi, lontani dalla realtà, non capisce la matematica che usa,
sbaglia tutte le previsioni, e suggerisce all’opinione pubblica ed ai politici
scelte dannose per la crescita economica, la riduzione della disoccupazione e delle diseguaglianze.
Infatti un economista liberista non fa mai previsioni (al contrario dello scienziato e del tecnico),
e quando le fa le sbaglia clamorosamente, non prevedendo le crisi in arrivo.
Questi pseudo-scienziati occupano il 90% delle cattedre universitarie (soprattutto in quelle private
tipo la Bocconi), nella facoltà di economia e commercio, legge, scienze politiche,
e sfornano tanti laureati, ignoranti nelle altre scuole di pensiero economiche e dei limiti della
loro materia, come ottusi polli di allevamento.
Infatti per Irving Fischer (docente a Yale ai primi del novecento):
insegna ad un pappagallo a dire “E’ la legge della domanda e dell’offerta” ed avrai un perfetto economista
Ed il Prof. Paolo Sylos Labini così descriveva il mestiere dell’economista:
il microbiologo studia i microbi, ma egli non è un microbo, l’economista studia la vita economica delle società,
ed egli stesso è un membro di una di queste società.
Egli è quindi influenzato dalle proprie valutazioni personali, che entrano, se non altro, nella scelta stessa dei problemi studiati
e che possono influire, distorcendoli, sui risultati dell’analisi
Ricorda Ha-Joon Chang ( nel Prologo di Economia Istruzioni per l’uso )
La scienza economica è riuscita particolarmente bene a tenere a distanza il grande pubblico. La gente è sempre pronta a far sentire la propria opinione su qualunque cosa, pur non avendo le competenze necessarie: cambiamento climatico, matrimoni gay, guerra in Iraq, centrali nucleari.. Ma quando si parla di questioni economiche, molti non mostrano di avere alcun interesse, figuriamoci un’opinione chiara in merito. […] Se in economia non esiste un’unica risposta esatta, allora non possiamo lasciare tutto in mano agli esperti. In altre parole, ogni cittadino responsabile deve imparare un po’ di economia, il che non significa procurarsi un librone di testo e assimilare una prospettiva economica particolare. Ciò che serve studiare l’economia per essere consapevoli che esistono diversi tipi di tesi economiche e sviluppare lo spirito critico per valutare quale posizione sia più sensata in una determinata situazione e ala luce di determinati valori morali e obiettivi politici. […]
L’economia non è una scienza
Studiosi come Albert Hirschmann (economista e filosofo liberale tedesco naturalizzato americano,
cognato di Altiero Spinelli, e suocero del premio Nobel 1998 Amyarta Sen) hanno analizzato
le leggi ed i modelli matematici proposti dagli economisti liberisti
come freudiana invidia della Fisica (in analogia con il trauma
dell’invidia del pene nelle bambine).
Come notato da Hirschmann, se uno scienziato vede un cane che dimena
la coda, per un economista liberista è la coda che dimena il cane.
Nel 1987 un importante convegno interdisciplinare, in cui erano presenti i maggiori
economisti, scienziati sociali e fisici teorici degli USA e del mondo, compresi diversi premi Nobel,
avrebbe dovuto avviare lo studio dell’Economia come sistema complesso.
Il convegno di Santa Fe era presieduto dal fisico Philip W. Anderson, fondatore della teoria dei sistemi complessi
emergenti (“More is different” Science, 1972) e premio Nobel nel 1977,
insieme a David Pines (fisico teorico) e Kenneth Arrow (economista, premio Nobel 1972).
Dopo aver ascoltato il resoconto sullo stato della loro materia degli economisti,
sempre più inorridito e schifato per le ipotesi assurde, Anderson chiese:
Ma voi ragazzi credete davvero a questa robaccia?
L’idea che i mercati tendano naturalmente all’equilibrio, come spinti da una mano invisibile, grazie all’informazione fornita dai prezzi, si basa su ipotesi chiaramente ridicole:
Le interazioni tra agenti economici sono molto semplici. In realtà sono molto complesse e spingono ad un comportamento caotico, od a convergere verso situazioni lontane da quelle ideali (esempio disoccupazione elevata e decrescita). La correlazione tra molti agenti porta ad instabilità e continue crisi.
Gli agenti economici hanno intelligenza infinita ed hanno aspettative razionali. Cioè usano le informazioni in modo efficiente senza compiere errori sistematici nella previsione dello stato futuro dell’economia. In realtà gli agenti economici si comportano in modo irrazionale, dispongono di scarse informazioni, che non sanno usare e li fanno sbagliare.
l’informazione è infinita e disponibile. In realtà spesso l’informazione non è condivisa fra gli agenti economici (venditore/compratore, assicuratore/assicurato),
chi dispone di maggiori informazioni ne trae vantaggio. In questo caso si parla di asimmetria informativa, che porta a selezione avversa, azzardo morale e fallimento del mercato. L’esempio classico è il mercato delle auto usate. Le reali condizioni dell’auto sono note solo al venditore. Viene fissato un prezzo medio, troppo alto per le auto in cattive condizioni e troppo basso per le auto in buone condizioni. Quindi le auto buone sono espulse dal libero mercato dove rimangono solo quelle cattive, i bidoni.Le aziende lavorano in regime di concorrenza perfetta. Nella realtà si formano monopoli e oligopoli, non necessariamente un male per la crescita e lo sviluppo (vedi ad. es. Paolo Sylos Labini, “Oligopolio e progresso tecnico”). Le aziende strategiche per un paese, specie nel settore dei servizi, spesso lavorano in regime di monopolio naturale, in cui può esistere una sola impresa sul mercato (esempio reti ed infrastrutture per la distribuzione di acqua, gas, energia elettrica, rete autostradale e ferroviaria).
Inoltre nell’economia liberista classica non si considerano le cosiddette esternalità, a cui non sanno dare un prezzo:
i costi del consumo insostenibile di risorse naturali, l’inquinamento causato dalle aziende, il riscaldamento globale, il consumo indiscriminato di beni comuni su cui non sono chiari i diritti di proprietà, come l’acqua o l’aria, le conoscenze scientifiche e tecnologiche accumulate nella società, il costo dell’ eccessiva disuguaglianza e della precarietà provocate dal mercato.
i vantaggi per la crescita e la produttività del lavoro della ricerca scientifica, del progresso tecnologico, dell’innovazione per investimenti a lungo termine dello stato, dell’innovazione di processo e di prodotto.
All’economista liberista si applica perfettamente il vecchio adagio di Oscar Wilde: conosce il prezzo di tutto ma il valore di niente.
Sia i fondatori della disciplina nel primo ottocento (Adam Smith, Ricardo, Marx)
che i grandi economisti del XX secolo (John M. Keynes, Joseph Schumpeter,
Piero Sraffa su tutti, ma anche Karl Polanyi, Hyman Minsky, Thorstein Veblen, Michael Kalecki,
Nicholas Kaldor, Nicholas Georgescu-Roengen, …)
avevano ben chiari i limiti della loro disciplina e lo stretto legame
con la storia, la sociologia, l’antropologia, l’etica, la filosofia.
Ed oggi ci sono molte scuole di economisti
eterodossi che stanno rifondando su basi più solide la disciplina.
Molti economisti contemporanei sono impegnati nello studio dei
fallimenti del mercato, che provocano inefficienza, disoccupazione, stagnazione.
Alcuni fallimenti del mercato sono legati all’informazione asimmetrica (Akerlof, Spence,
Stiglitz, …).
Altri studiano la razionalità limitata o l’irrazionalità degli operatori economici
con la psicologia comportamentale
( Kahneman, Tversky, Simon, Shiller, Thaler,…).
Infine alcuni sviluppano modelli più realistici di sistema economico, incorporando
i progressi della fisica teorica dei sistemi complessi, nel campo dell’ Econofisica.
Ci vuole quindi molta faccia tosta e malafede per sostenere la tesi che bisogna
liberalizzare i mercati, privatizzare e ridurre l’intervento statale,
il dirigismo e la pianificazione.
Le imprese per esempio non ripagano l’inquinamento che producono,
non possono reagire a sfide come quelle di una pandemia,
non sono capaci di fornire beni pubblici compresa la ricerca di base, l’istruzione, la sanità,
di limitare le disuguaglianze entro limiti socialmente accettabili
di fare politiche anticicliche in periodi di profonda crisi.
In sostanza lo Stato deve arrivare dove per natura le imprese non arrivano.
Purtroppo le aziende spesso se ne approfittano, e chiedono continuamente
aiuti, fondi pubblici, riduzioni delle tasse, al punto che lo scrittore Gore Vidal
una volta disse che il nostro sistema economico è libera impresa per i poveri
e socialismo per ricchi.